Oggi la Chiesa ci invita a festeggiare due grandi santi, due fratelli, Cirillo e Metodio, due dei più importanti missionari della storia, che hanno dato inizio alla missione in terra slava, cambiando la storia della Chiesa e dell'Europa.
Per me, che faccio parte di una fraternità missionaria, è un'occasione per riflettere sul senso dell'essere missionario: chi è il missionario?
La prima lettura di oggi ci parla del missionario come di colui che vive per annunciare quella pace vera che solo Dio può portare. Il suo compito è, quindi, l’annuncio, per cui il missionario è innanzitutto un “uomo della Parola”, un uomo che vive per annunciare Cristo. E pensando a don Isidoro, è proprio questa la prima immagine che io ho di lui, dal momento che era il mio insegnante.
Quando frequentavo le elementari alla scuola Maria Immacolata, per ascoltare le sue lezioni si univano le due classi, per cui eravamo sessantacinque-settanta bambini in una sola aula, eppure non volava una mosca. Don Isidoro entrava e cominciava subito a spiegare il Vangelo, il più delle volte mettendosi a improvvisare delle scenette, con tanta abilità e anche un certo gusto nel recitare. Noi rimanevamo incollati ad ascoltare e a guardare. E anche in quello si poteva notare già allora una predisposizione a immedesimarsi con Cristo.
Ricordano bene le sue parole anche i ragazzi del Liceo Classico, scuola che ho frequentato anch'io, e i tanti adulti che ascoltavano le sue lezioni e le sue omelie.
Missionario, dunque, innanzitutto un uomo che parla di Dio. Ma per parlare di Dio deve saper parlare dell'uomo, deve conoscere l’umanità, saperla leggere nel profondo: deve saperne conoscere e vedere la grandezza e anche la la miseria. Per questa ragione il missionario deve essere, ancor prima, capace di ascoltare: di ascoltare gli uomini, di ascoltare la loro voce, il loro grido, le loro domande.
Ma per poter parlare agli uomini il missionario deve innanzitutto saper parlare a Dio perché se non c'è preghiera, non c'è missione. E ascoltare Dio, prima ancora che parlare con Lui: ascoltare Dio che parla attraverso l'umanità delle persone che si incontrano e attraverso la realtà.
Il missionario poi è un uomo ricco: ricco perché ha tutto ciò di cui ha bisogno, cioè Cristo, e per questa ragione non ha bisogno di nient'altro e, quidi, nulla possiede, come don Lolo.
Il missionario, infine, è un uomo che ama.
Ama la vita, in tutti i suoi aspetti e vuole vivere senza perdere tempo, perché sa che il tempo è breve e prezioso. Ama la vita e non teme la morte, anzi, ha con la morte un rapporto tutto particolare: la aspetta, con quella familiarità che solo i santi possiedono, come san Francesco che la morte la chiamava sorella.
Un uomo che ama – ama Dio e ama gli uomini – il missionario. Di quell'amore descritto da San Paolo nella prima lettera ai Corinzi, che abbiamo appena ascoltato: il missionario “si fa tutto a tutti, per conquistare ad ogni costo qualcuno” (cfr. 1Cor 27).
Ero qui, in questa Basilica, quel giorno, quello del suo funerale: non ho mai più visto così tanta gente a Busto come quella volta (le cronache parlano di ventimila persone). Io mi trovavo a metà della Chiesa e mi ricordo quello che disse, nella sua omelia, monsignor Livetti, che ripeteva le parole di Gesù nel nel Vangelo: “Nessuno ha un amore più grande di questo, dare la vita per i propri amici” (Gv 15, 13) e aggiungeva: “Don Isidoro ha vissuto così. Ha vissuto come Gesù”. Ha voluto vivere come come Gesù e come lui ha voluto morire.
Ricordo che stavo ascoltando quelle parole e mi guardavo intorno e vedevo tutta quella gente vicino a me, commossa. E fra me e me pensai: “Guarda quest'uomo, non era ricco, non era famoso, non aveva una bella casa, non aveva una bella macchina… Eppure tutta questa gente è qui per lui.” E per la prima volta mi dissi: “Certo che una vita così non sarebbe male. Vivere così e morire così non sarebbe male” Ed è stata la prima volta che ho pensato che fare il prete poteva essere una possibilità anche per me. Però mi sono anche detto: “Certo che per essere come lui bisognerebbe avere una fede che non ho, un coraggio che non ho, una forza che non ho. Bisognerebbe essere santi e io non lo sono.” Così ho deciso di fare altro: a quell’età speravo ancora di fare il calciatore… e quando ho capito che quella non sarebbe stata la mia strada, ho deciso di andare all’università, a studiare economia, magari per guadagnare qualche soldo in un'altro modo che non fosse il calcio.
E quando, anni dopo, un giorno quel mio amico mi disse “Vado in seminario, vado a fare il prete” e io, incredulo, l'ho preso un po’ in giro e lui mi ha detto “Sì, perché voglio diventare santo”, ecco, lì è come se fosse accesa una lampadina, perché in fondo io un santo l'avevo conosciuto e quel desiderio ce l'avevo anch’io.
Concludo con un episodio in qualche modo legato ai santi che festeggiamo oggi, Cirillo e Metodio, e alla loro missione presso i popoli dell’Europa orientale. Una delle prime missioni della nostra piccola fraternità missionaria è stata in Russia, in Siberia, nel 1991. Era appena crollato il comunismo e, per volere di Don Giussani, noi aprimmo una casa in Siberia.
Quando, due o tre anni dopo, il nostro fondatore, don Massimo Camisasca, andò a visitare i nostri primi missionari a Novosibirsk, loro si trovavano di fronte a una situazione desolante. Dopo tanti anni di comunismo la gente viveva in una povertà non solo materiale, ma soprattutto umana e, oltre al freddo che si provava fuori, per le strade, c'era un freddo ancora più profondo che quelle persone vivevano dentro il loro cuore. Allora un nostro missionario chiese al nostro superiore: “Qual è il nostro compito? Che cosa dobbiamo fare in questo posto dove, tra l’atro, i cattolici sono così pochi? Cosa vuol dire essere missionari in questa terra?” E lui rispose con una questa frase che è, secondo me, una delle definizioni più belle di cosa vuol dire essere missionari. Don Massimo disse. “Voi dovete suscitare queste persone la nostalgia di una casa, perché queste persone non sanno più chi sono, non sanno più a chi appartengono, non sanno più qual è casa loro. Ecco la missione per voi consiste nel suscitare in loro il desiderio, la nostalgia di una casa, di un'appartenenza. E questo sarà possibile se prima di tutto sarete voi una casa se vivrete voi una casa tra di voi”.
Ecco allora in che cosa consiste la missione: suscitare la nostalgia di una casa.
Ed ecco che cosa è stato don Isidoro per tanti che sono entrati in contatto con lui: ha rappresentato per loro quella casa di cui avevano bisogno.
È stato una casa per chi cercava lui il conforto di una parola.
È stato una casa per chi aveva bisogno di essere perdonato.
È stato una casa per i ragazzi che avevano bisogno di un luogo a cui appartenere.
E una casa lui l'ha anche costruita materialmente, quando ha messo in piedi la comunità Marco Riva: una casa per i più poveri dei poveri, per quei ragazzi che avevano perso il senso e la voglia di vivere.
Don Lolo era una casa, una dimora per gli altri, ma sapeva che la sua dimora era altrove e forse è per questo che amava correre. Era sempre di corsa don Isidoro: ha vissuto la sua vita correndo, correndo verso la sua vera casa, dove abita adesso, che è anche la nostra.
don Emmanuele Silanos
